Dicono di me

TESTI CRITICI

Emilio Vergani 

catalogo in silenz-io

In Genesi 1, 26 sta scritto: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza». Ma in che senso l’uomo è immagine di Dio? Forse perché ne è una copia? E se tutto ciò è vero allora che posto occupa l’uomo nel mondo - essendo egli parte del creato e nel contempo immagine del creatore?
L’uomo è il vuoto dell’impronta di Dio; egli c’è soltanto quando Dio si ritrae. Soltanto in questa frattura nasce il Tempo, ossia l’infinita attesa della ricomposizione. Fino ad allora l’uomo rimane una cavità vuota in cui risuona una voce, un profilo spettrale che irriga il suolo del mondo.  

Antonella Giovenzana

mostra Arc Gallery

Un profilo di ferro che disegna la sagoma di un uomo: si presentano così molte delle sculture di Carlo Guzzi. Sagome che sono diventate la sua cifra stilistica per raccontare l’uomo, l’individuo ma anche l’uomo sociale. Ed è proprio nella relazione con gli altri uomini che il singolo sembra trovare il senso della sua esistenza come testimoniato dai gruppi di sagome che affollano le sue opere scultoree. Una scultura sintetica, dal segno minimalista che si genera spesso per sottrazione e per l’alternanza di pieni e vuoti. L’utilizzo di materiali semplici e primordiali come il ferro, il legno e l’argilla che l’artista mostra di saper dominare e piegare così facilmente al suo volere, è testimonianza non solo di capacità manuale e creatività artistica ma anche di una scelta etica nei riguardi del pianeta Terra, la casa degli uomini. 

Felice Bonalumi  

giornalista Avvenire 

Le sue sculture ripropongono l’antica domanda esistenziale dell’uomo attraverso il suo profilo e il gioco dei vuoti. La riflessione parte appunto dal senso di “vacuo” dell’anima che può essere assimilato alla “dimenticanza” di Dio che oggi segna il quotidiano, benché proprio l’uomo ne sia l’immagine. Nell’opera di Guzzi troviamo la necessità di arrivare a una ricomposizione della persona nella sua interezza. 

Matteo Piazza

L’ospite e l’artista

Parlami un po' di quest’ultimo lavoro”.
“L'ho appena ultimato”, rispose l’Artista. “Il busto rappresenta un uomo, o meglio forse è solo una parte di uomo. Un Uomo vero, però, non una semplice ombra o sagoma. Ecco quasi un uomo ideale, un modello. Forse quell'uomo pieno che vorrei essere io, o al quale vorrei somigliare. Talmente pieno da non avere bisogno di dover fissare le proprie radici in qualcuno di quei terreni di cui ti parlavo prima. Un Uomo da ammirare, da guardare da lontano per coglierne la grandezza, ma che nello stesso tempo si lasci toccare, si lasci esplorare da ciascuno di noi. Quasi addirittura voglia lasciarsi sorreggere da noi stessi. Non che ne abbia bisogno, ma solo per darci ancora di più l'idea del suo lasciarsi toccare, del suo consegnarci alla nostra curiosità, al nostro bisogno o desiderio di incontrarlo”. Travolto dalla propria spiegazione, che quasi sembrava render tutto più chiaro, quasi non si accorse di cosa succedeva intorno a lui. L'Ospite infatti aveva ripreso cappotto e berretto, aprì la porta e discese lungo le scale. “Ma perché scappi?” chiese l’Artista. “Scappo?” chiese a sua volta un po' stupito l'Ospite. “Eppure lo hai capito anche tu: siamo uomini solo quando siamo uomini in transito!”. 

Vittorio Raschetti

mostra MF Care Factory

Carlo Guzzi impiega un linguaggio aspro di consonanti metalliche che trascura le morbide convessità vocali, troppo umane, per evocare profili sottili del possibile. Metafore ferrose, non ancora corrose dal linguaggio esposto alle intemperie del tempo. Curve resistenti: segni resilienti, disegni di ferro aperti sul possibile. Modulazioni plastiche allusive, tessuti di ripetizioni ed ulteriori avvitamenti, incroci e scambi visivi affacciati sul minimo accenno di presenza. Soffio vitale attraverso gabbie metalliche aperte. Voliere aperte sulla fuga che lasciano fuggire l’anima volatile dal corpo.

Irma Zerboni 

catalogo Wunderkammern

“L’esercito silenzioso” di Carlo Guzzi ci accompagna in questo sensibile viaggio coi suoi duecento uomini in ferro cotto che si ergono da cumuli di macerie, sedimenti di memoria, frammenti di una condizione esistenziale umanamente condivisa. Sagome mute, silenziose presenze che inesorabilmente rivelano l’assenza di una vera identità in una massa informe, svelando l’inganno dell’apparenza e dell’appartenenza: futili tentativi dell’essere umano di costruirsi un’immagine consolidata da simboli comunemente acquisiti, sfuggendo ogni volta dal confronto con sé stesso. Come ombre appartenenti ad una realtà perduta questi anonimi personaggi trascinano con sé il sordido dramma della perdita, dell’impossibilità dell’essere, in cui la ripetizione diviene sospensione temporale, galleggiamento, vuoto. Ma è proprio attraverso questa dimensione che siamo portati, inevitabilmente, all’incontro con noi stessi, alla ricerca di una dimensione più intima, di una Via.
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